il mio “essere ceramista”

kirinuki

Siamo piume: basta un alito di vento che voliamo via.

Ci sono giorni in cui il mondo non gira. Puoi provare a concentrarti sul bello, a cercare di sentire sotto la pelle il velluto, ma niente. Non funziona.

Allora ci vuole un grande sforzo, bisogna essere pietre che non si fanno scalfire dall’acqua. Fermarsi e pensare che un artista non è mai solo. Un artista ha la sua materia che lo aspetta in un angolo della casa, dello studio. Un artista ha sempre una penna e un quaderno dove incidere i propri pensieri, i propri dolori, che poi diventeranno arte.

Sono una ceramista e il mio laboratorio mi accoglie come un guscio. Mi rinchiudo lì ogni giorno come un’eremita, lontana dai disastri di questo mondo. Con le mie mani immerse nell’argilla umida mi sento protetta. Il mio laboratorio è la mia via di fuga, il mio giardino segreto, un angolo di paradiso per quanto disordinato e spesso, troppo spesso, polveroso.

Tutto questo non toglie la sofferenza, non cancella i momenti di dolore… il mio guscio non è una gomma, ma lì la mia solitudine si fa più lieve anche perché il mio spazio è circondato di arte. Ci sono quadri, fotografie, i miei pezzi di ceramica ma anche quelli dei miei amici artisti; fogli disegnati, acquerelli scomposti, forme di gesso e schizzi esagerati. In ogni angolo c’è l’idea di un’opera che deve nascere, un seme da coltivare, una forma appena concepita. Stare a contatto con una tale esperienza estetica serve a toccare importanti livelli emotivi e cognitivi e ispira cambiamenti. Si dice che quando godiamo di opere d'arte, nel cervello si attivano le medesime aree di quando siamo innamorati e non è un amore effimero, resta dentro di noi più di quanto si pensi. La contemplazione dell’arte è una forma naturale e semplice per ritrovare un certo equilibrio, una ginnastica emotiva che ci compensa.

Nei giorni più bui, lì nel mio studio, riesco spesso a trovare la scintilla che mi permette di proseguire la giornata in leggera armonia. Certo devo scegliere la tecnica adatta al mio stato d’animo… impossibile giocare con il tornio nei momenti di ansia e tensione. Quel volteggiare violento e rumoroso del piatto aggiunge stress allo stress.  Il volere a tutti i costi provare a centrare quel pezzo di argilla, cercare di imprimere con le mani la stessa forza in ogni istante mentre dentro ribolle la rabbia o incombe la solitudine è una battaglia persa. Non si può lavorare al tornio se non si è in armonia con se stessi. O forse lo si può fare quando il tornio diventa routine nelle proprie mani, quando si diventa artigiani del tornio e non spavaldi artisti incoscienti.

Per fortuna l’argilla dona la libertà di espressione forse più di ogni altro materiale. Non esiste il metodo giusto per lavorarla, ma ognuno ha il suo. Nei miei momenti più faticosi, io torno ad essere scultrice, togliendo dalla materia al posto di aggiungere.

Kirinuki… adoro! Una palla di argilla e scavare, tagliare e imprimere fino a realizzare una forma armoniosa, leggera e viva. Decori irregolari e insoliti che nascono dal tocco istintivo delle mani. Non esiste la forma giusta, la simmetria e la precisione. Sei solo tu e la materia, senza regole. Scelgo un’argilla, spesso scura come il mio umore, e a piccoli colpi  cerco di imprimerci sopra il mio malumore. Uno stecco di legno o un sasso raccolto nel giardino. Qua e là con un coltello o un filo sottile, tagliuzzo qualche angolo. Porto via il disagio. Scavo. Scavo con il mio strumento preferito, piccolo con il manico in legno. Usato, liscio. Nelle mie mani è semplicemente un proseguimento delle mie dita, una mia appendice. Scavo e ogni ricciolo di argilla che esce da quel movimento naturale è una piccola scultura che approda sul mio tavolo. Una, due, tre e il mucchietto aumenta. Riccioli di creta che abbandonano il mio pezzo di argilla iniziale, rendendolo più leggero e alleggerendo anche la mia anima. Tolgo il peso che porto nel mio cuore e lo accumulo da un lato del tavolo.

Ne escono delle tazze ruvide, con parti ispessite che stanno in equilibrio quasi sempre su di un piccolo piede circolare. Creare un equilibrio nella materia è ritrovare un equilibrio dentro di me. Osservare quel piccolo pezzo di argilla con l’impronta del mio disagio ma alleggerita dal dolore e che sprigiona armonia e bellezza fa sì che i miei occhi si riconnettano con il bello, con il mio senso artistico, gentile e equilibrato. È come se ci fosse un autentico rapporto carnale in tutto questo mio processo creativo, una vera e propria soddisfazione fisica nel fare arte. La tazza è terminata. Resta il cumulo di scorie, di dolore, lì da una parte.

In verità, questa mia continua ricerca di incanalare la tensione interiore verso la forma più adeguata di espressione artistica è frustrante. L’arte è una bellissima compagna, ma anche lei è capricciosa e soggetta alle leggi della vita che rendono ogni volo terreno precario e soggetto a cadute. Forse nessuna arte mi potrà salvare. Devo prendere atto della bruttezza di una parte del mondo e integrarla nella tessitura della mia vita senza farmi uccidere ogni volta. Non posso buttare il cumulo di scorie, i riccioli di argilla avanzati, ma devo trovare il modo di recuperarli e farli rivivere. Metabolizzare gli aspetti orribili dell’umanità. Ma cercare di far sopravvive ogni volta il bene è una grande sfida e la voglia di continuare a proteggermi nella mia bolla, nel mio guscio è fortissima, anche se comprendo che alla lunga finisca per inaridire il mio essere artista e mi costringa in una condizione di passività.

Oggi fuori c’è il sole. Il cielo è di un’azzurro intenso. Senza vento gli alberi sono immobili. È sabato e sono sola nel mio laboratorio. L’argilla fra le mie mani è fredda, umida e deliziosamente plasmabile. Me la giro e rigiro nelle mani. Osservo l’impronta dei miei polpastrelli sulla sua superficie. Come si fa a tenere insieme arte e vita?

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Sei per sei per sei